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Addomesticare la solitudine

4 anni ago · · Commenti disabilitati su Addomesticare la solitudine

Addomesticare la solitudine

“Dove sono gli uomini?” disse il Piccolo Principe;
“Si è un po’ soli nel deserto”.
“Si è soli anche con gli uomini”, rispose il serpente.

Il piccolo principe
Antoine de Saint-Exupéry

 

Sempre più spesso, al giorno d’oggi, le persone riferiscono di soffrire di un profondo senso di solitudine. Si tratta di un vissuto oscuro e persistente, che insegue l’individuo per tutto il giorno, indipendentemente dal suo essere realmente da solo o con qualcuno, e che è accompagnato di frequente dalla sensazione di non essere compreso o accettato e di non sentirsi parte del mondo.
È uno stato d’animo che può far mancare il respiro e che, in genere, porta le persone a riempire le proprie giornate di impegni, per scongiurare il vuoto e la sua percezione angosciosa.
Questi vissuti possono diventare così pervasivi, da tradursi in una condizione psicologica seria che, se non affrontata, può portare a disturbi d’ansia, depressione, dipendenze e difficoltà relazionali.


Vari psicanalisti si sono occupati di questo particolare sentimento, arrivando a concettualizzazioni anche molto diverse tra loro.
Melanie Klein, ad esempio, considera il senso di solitudine come il vissuto di perdita dello stato interiore di perfetta unione e intesa, sperimentato nei primi mesi di vita dal neonato verso la madre. Il sentimento di solitudine deriva, secondo questa psicanalista, dalla nostalgia per la perdita irreparabile della comunicazione e comprensione profonda, che contraddistinguono questo particolare momento evolutivo, ed è una condizione ineliminabile di tutta la vita.
Winnicott, invece, parla della solitudine a proposito della capacità dell’individuo di stare da solo in presenza di un altro significativo, capacità considerata una meta fondamentale dello sviluppo emotivo. Questa competenza si sviluppa solo in presenza di una madre sufficientemente buona, che rispecchiando i bisogni del bambino, è in grado di riconoscerli e di rispondevi in maniera adeguata.

La possibilità del soggetto di entrare in relazione con un altro affonda, quindi, le sue radici nel primo rapporto madre-bambino ed è proprio dalla qualità di questo rapporto che dipende la capacità di godere della solitudine, intesa nella sua accezione positiva. L’individuo che sperimenta un senso di profonda angoscia legato a tale sentimento non ha goduto, quindi, di questa fondamentale esperienza infantile, condizione imprescindibile per lo sviluppo di un Io integrato e strutturato.

 

La solitudine ha quindi due volti: uno oscuro e angosciante, l’altro stimolante e creativo. Da un lato essa esprime il vissuto doloroso di profonda angoscia e terrore di ritrovarsi soli e abbandonati, una prigione da cui fuggire ad ogni costo; dall’altro può essere intesa come slancio di vita, come base della creatività, come spazio di introspezione, come momento di profondo contatto con la propria soggettività.
La paura della solitudine è, in ultima analisi, la paura di ritrovarsi da soli con se stessi e con le proprie emozioni, è la difficoltà a stabilire un dialogo interiore. È l’impossibilità di coinvolgersi in relazioni importanti, che siano di amicizia o sentimentali; è infine, l’incapacità di stabilire contatti profondi e significativi con le persone.
Se però la solitudine viene accettata, se si impara a godere di essa, se si riesce “a stare in sua compagnia”, tale vissuto può diventare un’occasione molto importante di crescita interiore.
Accettare la solitudine significa, infatti, entrare in contatto con se stessi, diventare coscienti delle proprie debolezze e delle proprie risorse, acquisire la consapevolezza della propria unicità.


Jean Michel Quinodoz, psicanalista svizzero, sottolinea a tale proposito come la solitudine, se addomesticata, possa diventare un bene prezioso, perché prendere consapevolezza di essa permetterebbe di apprezzare maggiormente la ricchezza delle relazioni con gli altri.
L’autore sottolinea quanto possa essere profondo l’incontro tra paziente e analista, proprio come spazio di elaborazione e trasformazione di tale vissuto.
Il passaggio da una solitudine ostile e angosciante ad una solitudine addomesticata, base della fiducia nella comunicazione con se stessi e con gli altri, avviene attraverso l’elaborazione dell’angoscia di separazione, all’interno della dinamica transferale.
Addomesticare la solitudine non significa sopprimere l’angoscia, ma imparare a fronteggiarla e utilizzarla per metterla al servizio della vita. L’angoscia di separazione, se elaborata, diventa quindi strutturante per l’Io, perché il percepire il dolore che accompagna tale sentimento permette di prendere consapevolezza della propria e dell’altrui unicità.
Sentirsi soli, quindi, significa prendere coscienza che si è unici e che l’altro è ugualmente unico e ciò permette di cogliere il valore inestimabile delle relazioni.
Elaborando e trasformando la solitudine è quindi possibile ridefinire il mondo interno dell’individuo, permettendo un nuovo e più sereno rapporto con se stessi e con gli altri.

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre