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L’irresistibile idea di controllare il caso: il disturbo da gioco d’azzardo

4 anni ago · · Commenti disabilitati su L’irresistibile idea di controllare il caso: il disturbo da gioco d’azzardo

L’irresistibile idea di controllare il caso: il disturbo da gioco d’azzardo

L’allarme sociale sulle problematiche legate al gioco d’azzardo è, in questo periodo storico, molto elevato anche in conseguenza dell’enorme crescita dell’offerta della possibilità di giocare, cui abbiamo assistito negli ultimi anni.
Il disturbo da gioco d’azzardo è una dipendenza patologica classificata nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V) nel capitolo delle dipendenze e si manifesta con il persistente e ricorrente comportamento problematico di gioco d’azzardo, che comporta difficoltà o disagio clinicamente significativi.

Per poter comprendere la psicologia del giocatore d’azzardo, è fondamentale sottolineare come tale disturbo riguardi solo i giochi di alea e non quelli di agon. In questi ultimi il giocatore deve contare solo su se stesso, sulle proprie capacità, sulla propria forza, preparazione, destrezza; invece i giochi di alea si fondano su una decisione o una abilità che non dipende dal giocatore e la vincita o la perdita sono attribuibili solo all’imprevedibilità del caso.

La persona che soffre di questo disturbo non è in grado di resistere al desiderio di scommettere o cimentarsi in giochi, nei quali vi sia la possibilità teorica di guadagnare molto, affrontando un rischio relativamente modesto o comunque accettabile in relazione alla singola perdita. La probabilità di vincita, seppur remota, attiva le aeree cerebrali coinvolte nel sistema della ricompensa in modo del tutto analogo a quanto farebbero l’abuso alcolico o di sostanze psicotrope, procurando esaltazione e piacere nell’immediato.
Il soggetto ha bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata ed è spesso irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco. Generalmente è eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo e spesso gioca per alleviare uno stato di disagio interiore.
Nonostante sia consapevole di danneggiare se stesso e la propria famiglia, non riesce a fermarsi, spinto dalla speranza che “questa sia la volta buona”, arrivando rapidamente a compromettere gravemente la propria vita economica, sociale, lavorativa e familiare.
Accade di frequente che si ritorni a giocare dopo una perdita pesante, con l’obiettivo di rifarsi, arrivando a mentire per nascondere l’entità del proprio coinvolgimento nel gioco e facendo debiti per reperire denaro, per alleviare una situazione finanziaria disperata.
Le persone che soffrono di tale disturbo riferiscono spesso di aver messo a repentaglio o perso una relazione significativa, il lavoro, oppure opportunità scolastiche o di carriera a causa del gioco d’azzardo.

Sono diversi i fattori che possono indurre un individuo ad iniziare a giocare. Da un lato ci sono i fattori esterni come la facilità di accesso dei luoghi deputati al gioco, la pubblicità, le strategie di marketing utilizzate per invogliare i fruitori. Dall’altro bisogna tener conto dei fattori interni come vivere il sogno di potere cambiare e migliorare la propria vita; ricercare occasioni di competizione, socializzazione, ostentazione, sfida; modulare il proprio umore (ansia, stress, depressione); provare eccitazione, brivido; regalarsi una parentesi di distrazione o evasione.
Per alcuni l’incontro con il gioco d’azzardo resta una pratica occasionale e del tutto priva di rischi e conseguenze; per altri, invece, può rivelarsi un punto di partenza verso un’evoluzione che può condurre ad una vera e propria forma di dipendenza patologica.
Ciò che determina lo sviluppo in senso patologico di un’attività apparentemente innocua è, come in tutte le dipendenze, la risultante di un processo che vede il concorso e l’interazione di fattori diversi legati alla persona (biologici, psicologici, fasi evolutive), al contesto microsociale (famiglia, ambiente di vita), a quello macrosociale (momento storico, culturale, economico) e all’incontro con l’esperienza di gioco.

I fattori di rischio possono essere molteplici: una situazione di isolamento, una separazione o un lutto, le preoccupazioni della vita, la noia, il desiderio di ricchezza. In queste situazioni, il gioco d’azzardo diventa una forma di compensazione temporanea all’insoddisfazione e alle preoccupazioni in altri contesti. L’apparente soluzione si rivela però, ben presto, peggiore del male iniziale, determinando problemi relazionali, professionali ed economici aggiuntivi, nonché un ulteriore scadimento del tono dell’umore.

Nel disturbo da gioco d’azzardo è possibile identificare tre fasi:

La prima, definita vincente, è caratterizzata dall’incontro con il gioco, che solitamente avviene con parenti o amici. È spesso una situazione che offre sensazioni piacevoli e che si configura come una parentesi dal mondo, che può innescare di conseguenza il desiderio, il pretesto, il bisogno e la giustificazione per ripetere nuovamente l’esperienza stessa.
In questa fase una grossa vincita può costituire spesso un punto di svolta verso l’evoluzione patologica. Il giocatore ha comunque la percezione del controllo e, pur conoscendo le conseguenze alle quali può condurre il gioco, ritiene di poterne essere immune e di poter tranquillamente gestire il proprio coinvolgimento traendone gli elementi di piacere ed evitandone i rischi.

La possibilità di scivolare nella seconda fase, quella perdente, è in realtà molto alta.
In questa, il ricorso alla ripetizione dell’esperienza diventa sempre più centrale nella vita e negli interessi della persona, mentre gli altri piani (familiare, relazionale, lavorativo) gradualmente passano in secondo ordine. Possono cominciare a presentarsi bugie a familiari, amici, colleghi e compaiono i primi debiti. Il giocatore non riesce più a rimanere all’interno dei limiti che si era dato. Ci si racconta che si gioca per rifarsi del denaro perso, innescando un meccanismo infernale, il chasing ovvero la rincorsa alla perdita: il soggetto gioca sempre di più e chiede prestiti nel tentativo di recuperare il denaro perso, nell’illusione che prima o poi arriverà la vincita, che permetterà di smettere definitivamente di giocare “uscendo da vincitore”. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio meccanismo di corruzione del Super-Io.

Da qui il passo alla terza fase, quella della disperazione, è breve.
L’individuo ha completamente perso il controllo del gioco e prova un profondo senso di panico che lo può portare a compiere azioni illegali anche contrarie ai suoi valori, giustificandosi, sostenendo che alla fine arriverà la grossa vincita che metterà a posto tutto. Spesso compaiono aggressività, accuse, vittimismo. La fase cruciale è quella della perdita della speranza dove si possono trovare pensieri e tentativi di suicidio, problemi con la giustizia, crisi coniugali e divorzi.

Dal punto di vista psicologico, alla base del disturbo da gioco d’azzardo, è possibile ritrovare una serie di fattori cognitivi, comportamentali e relazionali, che vanno ad incidere sulla formazione e sul mantenimento di questa forma di dipendenza. Tra essi ricordiamo l’illusione di poter controllare le giocate, la falsa credenza di poter predire le vincite, l’attribuire relazioni di causa-effetto a fenomeni puramente casuali, le aspettative di cambiamenti epocali nella propria vita grazie al gioco, la percezione di non riuscire a smettere di giocare, la sovrastima delle proprie abilità.
Il così detto pensiero magico si manifesta dietro diverse coperture e meccanismi cognitivi. Questi ultimi si possono articolare in maniera diversa ma hanno in comune la stessa radice e lo stesso bisogno: la negazione del caso e l’idea megalomanica di poterlo determinare, controllare, prevedere.
Tale illusione, affascinante e irresistibile allo stesso tempo, ha la funzione di allontanare l’essere umano dalla minaccia insita nell’angosciante arbitrarietà del fluire degli eventi. Si preferisce quindi il concetto di causalità a quello di casualità, negando così l’impossibilità di poter controllare ciò che avviene nella propria vita.

Vista la complessità del disturbo da gioco d’azzardo, il suo trattamento ideale dovrebbe prevedere un approccio integrato e multidimensionale che contempli, da un lato, la possibilità di associare ad un percorso di tipo psicologico (psicoterapia e gruppi di supporto) un aiuto di tipo farmacologico e dall’altro la presa in carico, non solo del paziente, ma anche dei suoi familiari.
Come per tutte le dipendenze, uscire dal tunnel del gioco d’azzardo non è affatto semplice, ma è fondamentale chiedere aiuto, già quando si avvertono i primi segni di tale disturbo. Il primo passo verso la guarigione risiede, infatti, nel riconoscere che la ludopatia è una vera e propria malattia e in quanto tale deve essere curata. Si tratta del passo più difficile poiché spesso le persone che soffrono di tale disturbo pensano erroneamente al gioco come ad un’abitudine normale e sono convinte di essere in grado di smettere in qualsiasi momento.

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre

 

L’Amore che diventa prigione: la dipendenza affettiva

4 anni ago · · Commenti disabilitati su L’Amore che diventa prigione: la dipendenza affettiva

L’Amore che diventa prigione: la dipendenza affettiva

“Ci hanno fatto credere che ognuno di noi è la metà di una mela e che la vita ha senso solo quando riusciamo a trovare l’altra metà. Non ci hanno detto che nasciamo interi, che mai nessuno nella nostra vita merita di portarsi sulle spalle la responsabilità di completare quello che ci manca: si cresce con noi stessi. Se stiamo in compagnia è semplicemente più gradevole”.

John Lennon

Che cos’è l’Amore? In molti hanno tentato, nel corso degli anni, di rispondere a questa domanda, base dell’esistenza umana. Ampiamente diffusa è l’idea che rappresenti uno stato di completezza ideale che ciascun individuo vorrebbe raggiungere.
Spesso però l’Amore può trasformarsi in un estremo tentativo di riempire i propri vuoti affettivi, diviene un mezzo per sanare antiche ferite, dando vita a rapporti complicati, in cui la propria soggettività può svanire all’ombra dell’oggetto amato. Sempre più frequenti sono le relazioni che si fondano sull’illusione che l’Altro completi le proprie mancanze e che l’Amore sia un rimedio per i propri dolori.
Erich Fromm, grande psicoanalista tedesco, definisce l’Amore maturo il legame con l’Altro, a condizione di preservare la propria integrità e la propria individualità.

Se tale requisito viene a mancare, si scivola nel campo di relazioni malate, tossiche, in cui il vincolo di coppia offusca i bisogni e i desideri del singolo e lo incatena, soffocando la sua individualità, come accade nel caso della dipendenza affettiva.
Essa viene classificata tra le “New Addiction”, ovvero le nuove dipendenze di tipo comportamentale, caratterizzate dall’assenza di una sostanza, come le dipendenze da Internet, dal sesso, dallo sport, dal lavoro, il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo. Il denominatore comune a tali dipendenze è il fatto che l’individuo non ricerca una sostanza esterna a lui, ma è dipendente da un oggetto o da una persona, con la quale stabilisce una condizione psicologica di esclusività e di legame.
Le caratteristiche della dipendenza affettiva sono molto simili a quelle della dipendenza da sostanze: intensa euforia in presenza del partner, desiderio spasmodico e irrefrenabile di essere con lui, tendenza a trascorrere sempre più tempo in sua compagnia e infine, nel caso di interruzione della relazione, sintomi simili a quelli che si riscontrano nella sindrome d’astinenza dei tossicodipendenti (depressione, ansia, insonnia o ipersonnia, irritabilità, perdita dell’appetito o abbuffate) e che spesso portano a ricadute.
Quando si parla di dipendenza affettiva è bene ricordare che un certo grado di dipendenza dal partner è una componente importante di ogni storia d’amore, soprattutto nella fase dell’innamoramento, caratterizzata da un forte senso di intimità e passione, in cui il vissuto di fusione può risultare particolarmente forte.
Nella dipendenza affettiva questo aspetto viene esasperato e il bisogno dell’Altro si cristallizza, pervadendo l’intera vita dell’individuo. La vicinanza e il legame con un’altra persona, spesso assente o sfuggente, diventa lo scopo unico e ultimo della propria esistenza. L’Altro diventa questione di vita o di morte: i bisogni individuali sono negati e annullati all’interno di un legame unidirezionale.

Nella vita delle persone che soffrono di dipendenza affettiva tutto inesorabilmente ruota attorno al partner e spesso la persona dipendente si chiude o evita volutamente gli altri nel tentativo di proteggersi dalle critiche. Accade di frequente che abbandoni progressivamente i suoi interessi e hobby, per seguire quelli del compagno o compagna. Il tempo in cui non si è in presenza della persona amata, viene speso a rimuginare sull’insoddisfazione della propria relazione, e la mente è costantemente occupata dal pensiero dell’Altro, tanto che non sono rare le situazioni in cui questo porta a importanti difficoltà lavorative.
Spesso i pazienti dipendenti riferiscono il vissuto di non esistere senza la persona amata, che diviene necessaria come l’aria per respirare. L’Altro è costantemente rincorso esattamente come fanno i giocatori d’azzardo che rincorrono la perdita e non riescono a smettere di giocare.
Tali dinamiche possono diventare particolarmente pericolose e sfociare in situazioni estreme, come ad esempio nel caso di violenza fisica: i pazienti dipendenti tendono a giustificare il partner, si isolano, mentono o non chiedono aiuto pur di proteggerlo; spesso purtroppo non riescono a lasciarlo nemmeno quando è a rischio la loro incolumità fisica.

Per comprendere a fondo la dipendenza affettiva è necessario considerarla in un’ottica relazionale: non quindi come un fenomeno che riguarda il singolo, ma come una dinamica che riguarda la coppia.
Il dipendente si considera spesso una persona non meritevole d’amore, si sente inadeguato e la sua vita è dominata da una costante angoscia di essere abbandonato. Per questo tenderà a scegliere inconsciamente partner problematici, evitanti, anaffettivi che andranno a confermare l’immagine negativa di sé.
Le persone dipendenti, offuscate dal terrore della solitudine, tendono ad assumere comportamenti compiacenti di estrema disponibilità e accudimento verso la persona amata, con la speranza di realizzare i suoi desideri e rimanerle accanto.
Il partner, all’opposto, avvilisce costantemente le debolezze del dipendente sul piano fisico, caratteriale, estetico, operando un costante confronto con un Altro, reale o ipotetico, sempre migliore. Si instaura così un vero e proprio circolo vizioso che si autoalimenta e che porta ad una totale perdita di autostima, ad un profondo e costante senso di angoscia, al terrore di essere lasciati, tanto da attribuirsi colpe che in realtà non si hanno, pur di giustificare i comportamenti svalutanti dell’Altro.
Eccitazione, euforia, passionalità scaturiscono proprio dalla indisponibilità e dal rifiuto della persona amata che spesso alterna, in modo repentino e sconcertante, slanci passionali ad atteggiamenti di profonda freddezza, chiusura e violenta critica. Tale capricciosità, che dovrebbe portare verso un allontanamento e una visione critica dell’Altro, forza invece ancor più nella direzione di un invischiamento sempre più cieco e profondo. Il dipendente è costantemente ossessionato dal tentativo di ricreare dei momenti piacevoli, rivivere la loro magia, sperando in un cambiamento del partner, magari proprio grazie alla propria azione salvifica. Nonostante l’Altro si dimostri impermeabile alla critica e al cambiamento, il dipendente continua a sperare, aggrappandosi all’illusione che prima o poi arrivi la svolta, sopportando angherie e sottili umiliazioni e rimanendo sempre più imprigionato in un incastro mortale.
Generalmente, i pazienti con dipendenza affettiva sono consapevoli della spirale asfissiante in cui sono rinchiusi, ma esattamente come i tossicodipendenti, non riescono a separarsi dal partner.
A volte, tale consapevolezza può portare a dire basta e a chiudere la relazione ma, inevitabilmente, sopraggiungono i sintomi dell’astinenza (depressione e incapacità di provare piacere, ansia, sensazione di vuoto ecc.), che inducono a perdonare la persona amata e a giustificarla, riprecipitando così nell’eterno circolo vizioso.

Le persone che soffrono di dipendenza affettiva possono trovare un grande aiuto in un percorso di psicoterapia ad orientamento psicanalitico, grazie al quale diventa possibile uscire dallo stato di profonda angoscia e terrore che costantemente li accompagna, portando al progressivo alleviarsi della loro sofferenza.
Condizione imprescindibile affinché questo avvenga, è che il paziente diventi consapevole del proprio funzionamento, e comprenda quale sia la motivazione sottostante alla dipendenza, che spesso si configura come un estremo tentativo di guarire un’antica ferita d’amore.
Solo rielaborando il passato è possibile rompere antichi schemi disfunzionali e dar vita a nuove possibilità di relazioni affettive, basate sulla reciprocità, sulla fiducia, sul rispetto e in cui sentirsi finalmente amati e accettati.

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre