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Seiryu Miharashi Eki: la stazione che ci ricorda l’importanza di fermarsi

2 anni ago · · Commenti disabilitati su Seiryu Miharashi Eki: la stazione che ci ricorda l’importanza di fermarsi

Seiryu Miharashi Eki: la stazione che ci ricorda l’importanza di fermarsi

“Nella quiete vive la saggezza. Nel silenzio troverai la pace. In solitudine ti ricorderai di te stesso.

Robin Sharma

 

Nel sud del Giappone, lungo il fiume Nishiki, esiste una stazione ferroviaria che non ha entrata né uscita, non ha una biglietteria, non ha un bar e nemmeno una sala d’attesa. I treni si fermano a fianco della banchina e i passeggeri possono scendere, ma poi non possono andare da nessuna parte e per allontanarsi devono aspettare il convoglio successivo.
Vicino non ci sono attrazioni turistiche, non c’è una città o un paese da visitare.
La stazione si chiama “Seiryu Miharashi Eki”, che si traduce come “piattaforma di vista del fiume”, ed è stata pensata con la sola funzione di ricordare l’importanza del fermarsi.

Se ci si trova su quella banchina di cemento, non si può fare altro che lasciar vagare lo sguardo e contemplare la natura incontaminata, assaporando il silenzio circostante.

Questa stazione si configura come un monito per ricordarci che a volte il silenzio e la riflessione sono fondamentali per resistere e per ripartire; rappresenta un’occasione per sottrarsi alla frenesia del quotidiano per pensare, riflettere, guardarsi dentro e riprendere il contatto con se stessi.
Chi decide di salire su quel treno sceglie, almeno per qualche istante, di ribellarsi alla frenesia della vita di tutti i giorni attingendo alla bellezza dell’ambiente.
Chi si ferma a quella fermata può tornare a respirare, almeno per un po’, godendo dello scroscio dell’acqua, apprezzando il rumore del vento fra gli alberi o le sue carezze sulla pelle.

Questa stazione ci ricorda che le pause, le parentesi di solitudine, silenzio e disconnessione sensoriale sono momenti fondamentali per il benessere dell’individuo.

Ma nella società attuale, dominata dalla fretta, dalla produttività e dal consumo, spesso ci dimentichiamo di tutto questo.

La solitudine è qualcosa che spaventa, da cui si cerca in tutti i modi di fuggire; rappresenta il vissuto doloroso di profonda angoscia di sentirsi abbandonati.
La paura della solitudine è, in fondo, la paura di ritrovarsi da soli con se stessi e con le proprie emozioni, è la difficoltà a stabilire un dialogo interiore, è l’impossibilità di coinvolgersi in relazioni importanti, che siano di amicizia o sentimentali.
Per fuggire da tutto questo spesso riempiamo le nostre giornate: andiamo alla ricerca di cose, oggetti, relazioni, sostanze e quant’altro per riempire degli spazi vuoti.
Il vuoto viene vissuto come inutile, fastidioso, inconcludente, non produttivo e di conseguenza viene evitato a tutti i costi.

La solitudine, in realtà, è una risorsa preziosa: permette di focalizzarsi su se stessi per comprende il proprio cammino.
Se si impara a godere di essa, se si riesce “a stare in sua compagnia”, può diventare un’occasione molto importante di crescita interiore.
Accettare la solitudine significa, infatti, entrare in contatto con se stessi, diventare coscienti delle proprie debolezze e delle proprie risorse, acquisire la consapevolezza della propria unicità.

Il vuoto diviene quindi spazio creativo.

Esiste, infatti, un luogo di creazione e produzione per l’essere umano che s’interpone tra la realtà soggettiva e quella oggettiva: è la così detta “area transizionale” di Winnicott. Uno spazio potenziale tra individuo e ambiente, che permette all’uomo di sviluppare un’autonomia riflessiva, cogliendo l’opportunità di dare un nuovo e personale senso alle proprie esperienze e al mondo.

Essere capaci di estraniarsi dal caos esterno per ascoltare il proprio mondo interno è, dunque, uno strumento fondamentale per ritornare in armonia con se stessi, poiché sono proprio il vuoto e la solitudine che ci permettono di prendere consapevolezza di quegli aspetti di noi che, nell’assordante frastuono della vita, non riusciremmo a percepire.

 

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre

 

Il segreto per superare le difficoltà: trovare il senso della propria vita

3 anni ago · · Commenti disabilitati su Il segreto per superare le difficoltà: trovare il senso della propria vita

Il segreto per superare le difficoltà: trovare il senso della propria vita

La vita, qualche volta, ci pone di fronte a situazioni particolarmente difficili e dolorose. Ed è proprio in tali occasioni che ci troviamo a riflettere sul senso della vita stessa, sul senso della sofferenza. Quando non siamo in grado di cambiare una situazione, quando viviamo l’amara consapevolezza della nostra impotenza perché non possiamo modificare la realtà esterna, ci troviamo di fronte ad una grande sfida: la possibilità di cambiare noi stessi, di modificare il nostro atteggiamento di fronte alle avversità.

“Uno psicologo nei lager” è un’opera in cui Viktor Frankl, psichiatra e psicoterapeuta, racconta la sua esperienza di prigioniero nei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale. È un libro crudo, dai contenuti molto forti, il cui valore storico è inestimabile. La sua originalità e bellezza risiedono nel fatto che non è solo un resoconto sulle atrocità dei lager, ma un saggio sul senso della vita e dell’esistenza umana.

Il punto di vista da cui è osservata la tragedia dei campi di sterminio è quello di uno psicoterapeuta che si interroga su ciò che accade attorno a lui, alla ricerca dei meccanismi psicologici in grado di spiegare i comportamenti che osserva. Il racconto, di straordinaria qualità narrativa, rappresenta una lucida analisi dei vissuti, delle emozioni e dei sentimenti delle vittime dei campi di sterminio. Come si sente un essere umano nella situazione di «non avere più nulla da perdere, tranne questa vita così ridicolmente nuda»? Cosa succede alla sua mente? Come si difende? Come sopporta? Cosa desidera?

Dopo la fase iniziale dello shock dell’accettazione della propria condizione di sudditanza alla disumanità del lager, sopraggiunge la seconda fase caratterizzata da apatia, indifferenza, insensibilità, considerati meccanismi di difesa della psiche indispensabili per sopravvivere, perché minimizzano la verità che altrimenti sarebbe inaccettabile. Emerge poi la riscoperta dell’interiorità, della religione, dell’amore, dell’arte e della bellezza della natura. Aneddoti, riflessioni, vignette di straordinaria umanità si susseguono, accompagnando il lettore in un processo di comprensione della psiche e dei sentimenti umani nell’irripetibile e terrificante ambiente del lager.

La tragedia del prigioniero diviene così strumento di conoscenza del senso di una vita negata, dell’interiorità e dell’amore, riscoperto nel suo significato salvifico: “Per la prima volta nella mia vita, provo la verità di ciò che per molti pensatori è stato il culmine della saggezza, di ciò che molti poeti hanno cantato; sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi. Comprendo ora il senso del segreto più sublime che la poesia, il pensiero umano ed anche la fede possono offrire: la salvezza delle creature attraverso l’amore e nell’amore! Capisco che l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema – sia pure per qualche attimo – nella contemplazione dell’essere amato”.

La riscoperta dell’interiorità conduce l’autore a riflettere su cosa renda possibile la sopravvivenza in un campo di concentramento. Durante gli anni passati nei lager, Frankl aveva notato come i prigionieri che riuscivano a non soccombere erano coloro che avevano uno scopo da realizzare fuori da quell’inferno. Chi, invece, non aveva alcun motivo forte e chiaro per resistere e portare a termine una missione personale era destinato quasi sempre alla morte.

Per poter sopravvivere all’esperienza estrema del campo di concentramento, l’unica possibilità era essere proiettati nel futuro: “l’uomo può esistere solo nella visuale del futuro”.
“Chi invece non sa credere più nel futuro, nel suo futuro, in un campo di concentramento è perduto”.

Secondo Frankl solo chi aveva qualcosa che lo aspettava fuori dal lager (un progetto, una persona amata) aveva la possibilità di sopravvivere alle condizioni disumane di vita cui era sottoposto.

L’autore spiega:
“Tutti gli sforzi psicoterapeutici e d’igiene mentale rivolti ai detenuti dovrebbero obbedire a un motto, espresso con grande chiarezza nelle parole di Nietzsche: «Chi ha un perché nella vita sopporta quasi ogni come». Si doveva dunque, quando si presentava una buona occasione, qualche volta, qua e là, chiarire agli internati il “perché” della loro vita per far sì che fossero interiormente all’altezza del terribile “come” del loro presente, degli spaventi di una vita nel Lager, affinché potessero affrontare tutto con coraggio. E viceversa: guai a chi non trovava più uno scopo di vita, non aveva un contenuto di vita, non scorgeva nessuno scopo nella sua esistenza; svaniva il significato del suo essere, perdeva ogni senso anche la resistenza.”

“Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come”
Friedrich Wilhelm Nietzsche

Viktor Frankl, come milioni di altri ebrei, fu spogliato di tutto tranne che della sua nuda esistenza. Non possedeva più nulla, nemmeno un nome: era diventato un semplice numero. C’era però una cosa che nessuno poteva togliergli, nemmeno il più crudele dei suoi aguzzini: il senso della sua esistenza.

“Tutto può essere tolto a un uomo a eccezione di una cosa: l’ultima delle libertà umane: poter scegliere il proprio atteggiamento in ogni determinata situazione, anche se solo per pochi secondi”.

L’autore mette l’accento su come, di fronte ad ogni sofferenza, anche quella più estrema, l’uomo debba giungere alla consapevolezza di essere unico e originale in tutto l’universo, con il suo destino e il suo dolore. Nessuno può assumere questa sofferenza al  suo posto. La possibilità di un’esistenza originale sta proprio nel “come” l’individuo, colpito da questo destino, sopporta i suoi affanni.

“L’essere indispensabile e insostituibile, tipici d’ogni individuo, fanno apparire nella giusta misura, non appena affiorano nella coscienza, la responsabilità che un uomo ha della sua vita, lo incitano a continuare a vivere. Un uomo pienamente consapevole di questa responsabilità nei confronti dell’opera che l’attende o della persona che lo ama e che l’aspetta, non potrà mai gettar via la sua esistenza. Egli sa bene il «perché» della sua vita – e quindi saprà sopportare quasi tutti i «come».”

Il fondamentale insegnamento nascosto tra le righe di questo libro è che la sofferenza fa parte della vita, non è evitabile, e come tale va accettata. “Se vivere è sofferenza, sopravvivere è trovare il senso a questa sofferenza.”

Per sopravvivere ai momenti più difficili della vita è importante, quindi, trovare il senso della propria esistenza, dare un senso al proprio dolore.
Non esiste un significato universale, ogni individuo deve ricercare il proprio significato che sarà unico e diverso da qualsiasi altra persona, perché espressione della sua vita e della sua storia.

Nelle difficoltà che incontriamo ogni giorno dovremmo ricordarci sempre che la vera libertà risiede nel modo in cui decidiamo di affrontare quello che ci accade.
Possiamo sempre scegliere se reagire con amore oppure con mancanza di amore. Possiamo sempre fare una scelta tra il desiderio di continuare a vivere nonostante tutto e l’arrendevolezza di chi è già morto dentro. Possiamo scegliere se arrenderci alla disperazione oppure trovare un po’ di meraviglia e calore in un tramonto su un lager. Possiamo sempre scegliere se abbandonarci alla sofferenza e alla morte, oppure reagire cercando l’amore per noi stessi, per le persone che ci circondano, per la natura.

Concludo, lasciando la parola a Viktor Frankl, riportando uno dei passaggi più intensi e poetici del suo libro, con l’augurio che ogni individuo possa intraprendere un viaggio personale e profondo alla scoperta di se stesso e del senso della propria esistenza.

“E accadde una volta che, di sera, mentre stanchi morti dopo il lavoro ci eravamo già sdraiati per terra, nelle baracche, con la ciotola della minestra in mano, un compagno entrò a precipizio, invitandoci a uscire sullo spiazzo dell’appello, nonostante la stanchezza e il freddo di fuori, perché non dovevamo perdere lo spettacolo di un certo tramonto. E quando, usciti fuori, vedemmo le scure nubi rosseggianti, a occidente, e tutto l’orizzonte animato da nubi multicolore sempre mutevoli, con le loro figure fantastiche ed i loro colori ultraterreni, dall’azzurro cobalto al rosso sangue, e sotto, in contrasto, le tristi capanne di terra del Lager e il paludoso spiazzo dell’appello, nelle pozzanghere del quale si specchiava la bragia del cielo, allora, dopo alcuni minuti di silenzio rapito, qualcuno disse: “Come potrebbe essere bello il mondo!”.

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre

Lettura consigliata: “Uno psicologo nei lager” di Viktor Frankl

Fotografia e Psicoanalisi: la rappresentabilità delle emozioni

4 anni ago · · Commenti disabilitati su Fotografia e Psicoanalisi: la rappresentabilità delle emozioni

Fotografia e Psicoanalisi: la rappresentabilità delle emozioni

“Le fotografie sono orme della nostra mente, specchi delle nostre vite, riflessi del nostro cuore.”
Judy Weiser

Psicoanalisi e fotografia rappresentano due mondi particolarmente affascinanti tra i quali è possibile rintracciare innumerevoli interconnessioni.
Prima tra tutte, l’importanza che riconoscono alla luce come mezzo per rivelare qualcosa.
In psicoanalisi la luce è la coscienza che permette di illuminare l’Inconscio e l’essenza della cura psicoanalitica risiede nel portare alla luce elementi sconosciuti della personalità del paziente.
Nel mondo della fotografia la luce permette di produrre l’immagine. La stessa origine etimologica della parola richiama questo concetto: il termine deriva dal greco, foto (phos) e grafia (graphis) e letteralmente significa “scrivere con la luce”.

Un altro aspetto trasversale ai due mondi è il fatto che si snodano lungo il continuum dentro-fuori, mondo interno e mondo esterno.
Secondo la psicoanalisi la macchina fotografica è un’estensione dell’apparato psichico o meglio di uno dei suoi organi percettivi fondamentali, la vista. Lo strumento-macchina permette di collegare chi fotografa con l’esterno, attraverso un processo in cui mondo interno e mondo esterno sfumano l’uno sull’altro.
Secondo Henri Cartier-Bresson fotografare è un modo di vivere, è dare spazio e corpo ad un’immagine interiore. Il fermo immagine fotografico corrisponde dunque a fermare un’immagine psichica, metterla in risalto ed in rilievo, darle profondità. Ad un livello psicoanalitico la fotografia assume una valenza di medium tra la realtà fisica e la realtà psicologica, è un ponte tra interno ed esterno dove l’esterno viene introiettato e trasformato sulla base dell’interiorità del fotografo.
 Luigi Ghirri, grande fotografo italiano, afferma:

Nel momento in cui io scatto, mi trovo sulla soglia, sono sul punto di avvertire la possibilità di filtrare il mio mondo interno con l’esterno. Sono la soglia di qualcosa, la soglia per andare verso qualcosa.

Nel momento in cui scatta, il fotografo deve compiere un doppio movimento che va dall’esterno all’interno, per poi tornare nuovamente all’esterno, che appare però trasformato sulla base della sua interiorità e soggettività.
Questo doppio movimento e questa soggettività sono particolarmente evidenti quando si confrontano le fotografie di due differenti fotografi davanti ad un’identico soggetto nel medesimo tempo e spazio. Ogni fotografo interpreterà il mondo esterno in maniera prettamente soggettiva, dando corpo a ciò che per lui ha valore, sulla base della propria esperienza e dei propri vissuti.
Quando si scatta una fotografia, quindi, si portano all’esterno parti di sé, si proiettano in essa la propria storia, i propri vissuti, le proprie vicissitudini interne.
La fotografia diventa una sorta di “acting-out”, ovvero la riproduzione di un’idea inconscia attraverso un’azione anziché attraverso un ricordo o un pensiero, e il fotografo utilizza inconsciamente la fotografia per comunicare parti di sé e per elaborare i propri vissuti.
Le fotografie che scattiamo parlano di noi, delle nostre emozioni, delle nostre esperienze, trasmettono talvolta inconsciamente messaggi profondi sulla nostra esistenza e sui nostri valori. Il noto fotografo Ansel Adams sottolinea:

Tu non fai una fotografia solo con la macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito e le persone che hai amato”.

Il movimento tra mondo esterno e mondo interno non appartiene solo a chi scatta una fotografia, ma anche a chi poi la osserverà: ogni immagine verrà interpretata in modo diverso dall’osservatore, che proietterà in essa i propri vissuti e le proprie emozioni.

Lo stretto legame tra mondo interno e fotografia è alla base delle due maggiori applicazioni cliniche di tale strumento: la fototerapia e la fotografia terapeutica.
La fototerapia, ideata da Judy Weiser, Psicologa ed Arte Terapeuta, è un sistema articolato di tecniche che prevedono l’utilizzo della fotografia all’interno del percorso terapeutico. Consiste essenzialmente nell’analisi da parte dello psicoterapeuta del rapporto tra il paziente e le foto (foto scattate dal soggetto, foto del soggetto scattate da altre persone, autoritratti, album di famiglia e foto raccolte nel tempo), che diventano quindi un mezzo per accedere al mondo interno dell’individuo.
La fotografia diventa una vera e propria area transizionale, un’area terza in cui avviene l’incontro tra diverse parti del paziente.

La fotografia terapeutica, invece, è quella particolare pratica, condotta autonomamente dalle persone al di fuori di un contesto clinico, in cui la fotografia viene utilizzata per la scoperta di se stessi o con fini espressivi. Alcuni artisti, infatti, utilizzano la fotografia come uno strumento di conoscenza del proprio mondo interno o come un mezzo per comunicare ciò che non riuscirebbero ad esprimere a parole e per elaborare traumi o superare momenti di particolare difficoltà.
L’attività fotografica o artistica in generale può, infatti, apportare benessere poiché consente di avviare e di sostenere un processo di elaborazione di temi, vissuti, emozioni, che altrimenti potrebbero rimanere inespressi.
A tale proposito Stefano Ferrari afferma:

“Un individuo è spinto a rappresentare in immagine, a trasformare in simbolo il suo tormento interiore, e già nel lavorare a questa trasformazione, il dolore si allevia”.

La fotografia in ultima analisi apre al dialogo, prima tra fotografo e parti di sé, poi tra fotografia e osservatore, e in tal senso può permettere un miglior rapporto con se stessi. Fotografare e osservare una fotografia sono quindi esperienze che ci mettono in contatto con il nostro mondo interno e possono diventare una preziosa chiave di accesso ai nostri vissuti profondi ed alle dinamiche che li sottendono.

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre

Il “languishing”: sarà davvero l’emozione del 2021?

4 anni ago · · Commenti disabilitati su Il “languishing”: sarà davvero l’emozione del 2021?

Il “languishing”: sarà davvero l’emozione del 2021?

Difficoltà di concentrazione, scarso entusiasmo, sentirsi senza obiettivi: sono questi i principali vissuti che accomunano oggi molte persone  e che sono considerati una conseguenza psicologica a lungo termine della pandemia da covid.
Non si tratta di depressione perché la speranza non è azzerata, non si tratta di burn-out perché le energie non sono scomparse del tutto; si tratta di uno stato d’animo molto particolare, al quale lo psicologo americano Adam Grant, in un recente articolo comparso sul New York Times, ha dato il nome di “languishing”, che potrebbe essere tradotto in italiano con “languire”.
È uno stato di malessere, caratterizzato da stagnazione, senso di vuoto, svogliatezza, mancanza di prospettive; si vive come se ci si trascinasse nel corso della giornata, “come se si osservasse la propria vita attraverso un finestrino appannato”.
Secondo Adam Grant questa potrebbe essere l’emozione che accompagnerà il 2021.

Il sociologo Corey Keyes aveva coniato il termine “languishing” per indicare uno dei due poli del continuum della salute psicologica, che vede, sul lato opposto, il “flourishing“, il fiorire, ovvero uno stato psicologico positivo, una condizione in cui l’individuo esprime le sue potenzialità e vive pienamente la propria vita.
Il languishing si presenta quindi come una condizione che, pur trovandosi ancora all’interno dell’area della salute mentale, rappresenta un fattore di rischio e può sfociare, se non arginato, in un disturbo psicologico più grave.
Parte della della sua pericolosità risiede nel fatto che è spesso accompagnato da profonda inconsapevolezza: non si riconosce la sofferenza, ci si abitua al malessere, si è indifferenti alla propria indifferenza, non ci si rende conto che ci si sta piano piano spegnendo.

Adam Grant propone però delle soluzioni.
Innanzitutto è importante dare un nome a questa condizione, riconoscerla e capire che non siamo gli unici a viverla ma che, al contrario, è qualcosa che in molti stanno sperimentando. Capire che non siamo soli e prendere consapevolezza del nostro malessere è il primo passo per poterlo affrontare, o con le nostre risorse o facendoci aiutare da un esperto.

L’altra arma che Adam Grant propone è racchiusa nella parola inglese “flow”. Lo stato di flow o di flusso è un concetto sviluppato da Mihály Csíkszentmihályi, uno degli psicologi più famosi nell’indagine della psicologia positiva, per indicare quel particolare stato emotivo positivo che proviamo quando siamo completamente assorbiti da qualcosa, a tal punto da perdere la cognizione del tempo e dello spazio.
È uno stato di abbandono molto piacevole che può essere raggiunto realizzando qualsiasi tipo di attività come ad esempio la pittura, la scrittura, lo sport, a condizione che ci sia una stato di perfetto equilibrio tra le nostre capacità e le sfide che il compito presenta.

Secondo Adam Grant è importante, quindi, che ciascun individuo scopra quali siano le attività che gli permettano di sperimentare lo stato di flow, poiché proprio la magica sensazione di essere trasportati altrove pare essere uno dei migliori antidoti contro il languishing.
Solo così potremo tornare a vivere la nostra vita da protagonisti e smettere di osservarla da un finestrino appannato; solo così potremo tornare a farci ancora meravigliare dai colori, in un mondo che, per un po’ di tempo, ci è apparso in bianco e nero.

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre

L’irresistibile idea di controllare il caso: il disturbo da gioco d’azzardo

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L’irresistibile idea di controllare il caso: il disturbo da gioco d’azzardo

L’allarme sociale sulle problematiche legate al gioco d’azzardo è, in questo periodo storico, molto elevato anche in conseguenza dell’enorme crescita dell’offerta della possibilità di giocare, cui abbiamo assistito negli ultimi anni.
Il disturbo da gioco d’azzardo è una dipendenza patologica classificata nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V) nel capitolo delle dipendenze e si manifesta con il persistente e ricorrente comportamento problematico di gioco d’azzardo, che comporta difficoltà o disagio clinicamente significativi.

Per poter comprendere la psicologia del giocatore d’azzardo, è fondamentale sottolineare come tale disturbo riguardi solo i giochi di alea e non quelli di agon. In questi ultimi il giocatore deve contare solo su se stesso, sulle proprie capacità, sulla propria forza, preparazione, destrezza; invece i giochi di alea si fondano su una decisione o una abilità che non dipende dal giocatore e la vincita o la perdita sono attribuibili solo all’imprevedibilità del caso.

La persona che soffre di questo disturbo non è in grado di resistere al desiderio di scommettere o cimentarsi in giochi, nei quali vi sia la possibilità teorica di guadagnare molto, affrontando un rischio relativamente modesto o comunque accettabile in relazione alla singola perdita. La probabilità di vincita, seppur remota, attiva le aeree cerebrali coinvolte nel sistema della ricompensa in modo del tutto analogo a quanto farebbero l’abuso alcolico o di sostanze psicotrope, procurando esaltazione e piacere nell’immediato.
Il soggetto ha bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata ed è spesso irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco. Generalmente è eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo e spesso gioca per alleviare uno stato di disagio interiore.
Nonostante sia consapevole di danneggiare se stesso e la propria famiglia, non riesce a fermarsi, spinto dalla speranza che “questa sia la volta buona”, arrivando rapidamente a compromettere gravemente la propria vita economica, sociale, lavorativa e familiare.
Accade di frequente che si ritorni a giocare dopo una perdita pesante, con l’obiettivo di rifarsi, arrivando a mentire per nascondere l’entità del proprio coinvolgimento nel gioco e facendo debiti per reperire denaro, per alleviare una situazione finanziaria disperata.
Le persone che soffrono di tale disturbo riferiscono spesso di aver messo a repentaglio o perso una relazione significativa, il lavoro, oppure opportunità scolastiche o di carriera a causa del gioco d’azzardo.

Sono diversi i fattori che possono indurre un individuo ad iniziare a giocare. Da un lato ci sono i fattori esterni come la facilità di accesso dei luoghi deputati al gioco, la pubblicità, le strategie di marketing utilizzate per invogliare i fruitori. Dall’altro bisogna tener conto dei fattori interni come vivere il sogno di potere cambiare e migliorare la propria vita; ricercare occasioni di competizione, socializzazione, ostentazione, sfida; modulare il proprio umore (ansia, stress, depressione); provare eccitazione, brivido; regalarsi una parentesi di distrazione o evasione.
Per alcuni l’incontro con il gioco d’azzardo resta una pratica occasionale e del tutto priva di rischi e conseguenze; per altri, invece, può rivelarsi un punto di partenza verso un’evoluzione che può condurre ad una vera e propria forma di dipendenza patologica.
Ciò che determina lo sviluppo in senso patologico di un’attività apparentemente innocua è, come in tutte le dipendenze, la risultante di un processo che vede il concorso e l’interazione di fattori diversi legati alla persona (biologici, psicologici, fasi evolutive), al contesto microsociale (famiglia, ambiente di vita), a quello macrosociale (momento storico, culturale, economico) e all’incontro con l’esperienza di gioco.

I fattori di rischio possono essere molteplici: una situazione di isolamento, una separazione o un lutto, le preoccupazioni della vita, la noia, il desiderio di ricchezza. In queste situazioni, il gioco d’azzardo diventa una forma di compensazione temporanea all’insoddisfazione e alle preoccupazioni in altri contesti. L’apparente soluzione si rivela però, ben presto, peggiore del male iniziale, determinando problemi relazionali, professionali ed economici aggiuntivi, nonché un ulteriore scadimento del tono dell’umore.

Nel disturbo da gioco d’azzardo è possibile identificare tre fasi:

La prima, definita vincente, è caratterizzata dall’incontro con il gioco, che solitamente avviene con parenti o amici. È spesso una situazione che offre sensazioni piacevoli e che si configura come una parentesi dal mondo, che può innescare di conseguenza il desiderio, il pretesto, il bisogno e la giustificazione per ripetere nuovamente l’esperienza stessa.
In questa fase una grossa vincita può costituire spesso un punto di svolta verso l’evoluzione patologica. Il giocatore ha comunque la percezione del controllo e, pur conoscendo le conseguenze alle quali può condurre il gioco, ritiene di poterne essere immune e di poter tranquillamente gestire il proprio coinvolgimento traendone gli elementi di piacere ed evitandone i rischi.

La possibilità di scivolare nella seconda fase, quella perdente, è in realtà molto alta.
In questa, il ricorso alla ripetizione dell’esperienza diventa sempre più centrale nella vita e negli interessi della persona, mentre gli altri piani (familiare, relazionale, lavorativo) gradualmente passano in secondo ordine. Possono cominciare a presentarsi bugie a familiari, amici, colleghi e compaiono i primi debiti. Il giocatore non riesce più a rimanere all’interno dei limiti che si era dato. Ci si racconta che si gioca per rifarsi del denaro perso, innescando un meccanismo infernale, il chasing ovvero la rincorsa alla perdita: il soggetto gioca sempre di più e chiede prestiti nel tentativo di recuperare il denaro perso, nell’illusione che prima o poi arriverà la vincita, che permetterà di smettere definitivamente di giocare “uscendo da vincitore”. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio meccanismo di corruzione del Super-Io.

Da qui il passo alla terza fase, quella della disperazione, è breve.
L’individuo ha completamente perso il controllo del gioco e prova un profondo senso di panico che lo può portare a compiere azioni illegali anche contrarie ai suoi valori, giustificandosi, sostenendo che alla fine arriverà la grossa vincita che metterà a posto tutto. Spesso compaiono aggressività, accuse, vittimismo. La fase cruciale è quella della perdita della speranza dove si possono trovare pensieri e tentativi di suicidio, problemi con la giustizia, crisi coniugali e divorzi.

Dal punto di vista psicologico, alla base del disturbo da gioco d’azzardo, è possibile ritrovare una serie di fattori cognitivi, comportamentali e relazionali, che vanno ad incidere sulla formazione e sul mantenimento di questa forma di dipendenza. Tra essi ricordiamo l’illusione di poter controllare le giocate, la falsa credenza di poter predire le vincite, l’attribuire relazioni di causa-effetto a fenomeni puramente casuali, le aspettative di cambiamenti epocali nella propria vita grazie al gioco, la percezione di non riuscire a smettere di giocare, la sovrastima delle proprie abilità.
Il così detto pensiero magico si manifesta dietro diverse coperture e meccanismi cognitivi. Questi ultimi si possono articolare in maniera diversa ma hanno in comune la stessa radice e lo stesso bisogno: la negazione del caso e l’idea megalomanica di poterlo determinare, controllare, prevedere.
Tale illusione, affascinante e irresistibile allo stesso tempo, ha la funzione di allontanare l’essere umano dalla minaccia insita nell’angosciante arbitrarietà del fluire degli eventi. Si preferisce quindi il concetto di causalità a quello di casualità, negando così l’impossibilità di poter controllare ciò che avviene nella propria vita.

Vista la complessità del disturbo da gioco d’azzardo, il suo trattamento ideale dovrebbe prevedere un approccio integrato e multidimensionale che contempli, da un lato, la possibilità di associare ad un percorso di tipo psicologico (psicoterapia e gruppi di supporto) un aiuto di tipo farmacologico e dall’altro la presa in carico, non solo del paziente, ma anche dei suoi familiari.
Come per tutte le dipendenze, uscire dal tunnel del gioco d’azzardo non è affatto semplice, ma è fondamentale chiedere aiuto, già quando si avvertono i primi segni di tale disturbo. Il primo passo verso la guarigione risiede, infatti, nel riconoscere che la ludopatia è una vera e propria malattia e in quanto tale deve essere curata. Si tratta del passo più difficile poiché spesso le persone che soffrono di tale disturbo pensano erroneamente al gioco come ad un’abitudine normale e sono convinte di essere in grado di smettere in qualsiasi momento.

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre

 

L’Amore che diventa prigione: la dipendenza affettiva

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L’Amore che diventa prigione: la dipendenza affettiva

“Ci hanno fatto credere che ognuno di noi è la metà di una mela e che la vita ha senso solo quando riusciamo a trovare l’altra metà. Non ci hanno detto che nasciamo interi, che mai nessuno nella nostra vita merita di portarsi sulle spalle la responsabilità di completare quello che ci manca: si cresce con noi stessi. Se stiamo in compagnia è semplicemente più gradevole”.

John Lennon

Che cos’è l’Amore? In molti hanno tentato, nel corso degli anni, di rispondere a questa domanda, base dell’esistenza umana. Ampiamente diffusa è l’idea che rappresenti uno stato di completezza ideale che ciascun individuo vorrebbe raggiungere.
Spesso però l’Amore può trasformarsi in un estremo tentativo di riempire i propri vuoti affettivi, diviene un mezzo per sanare antiche ferite, dando vita a rapporti complicati, in cui la propria soggettività può svanire all’ombra dell’oggetto amato. Sempre più frequenti sono le relazioni che si fondano sull’illusione che l’Altro completi le proprie mancanze e che l’Amore sia un rimedio per i propri dolori.
Erich Fromm, grande psicoanalista tedesco, definisce l’Amore maturo il legame con l’Altro, a condizione di preservare la propria integrità e la propria individualità.

Se tale requisito viene a mancare, si scivola nel campo di relazioni malate, tossiche, in cui il vincolo di coppia offusca i bisogni e i desideri del singolo e lo incatena, soffocando la sua individualità, come accade nel caso della dipendenza affettiva.
Essa viene classificata tra le “New Addiction”, ovvero le nuove dipendenze di tipo comportamentale, caratterizzate dall’assenza di una sostanza, come le dipendenze da Internet, dal sesso, dallo sport, dal lavoro, il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo. Il denominatore comune a tali dipendenze è il fatto che l’individuo non ricerca una sostanza esterna a lui, ma è dipendente da un oggetto o da una persona, con la quale stabilisce una condizione psicologica di esclusività e di legame.
Le caratteristiche della dipendenza affettiva sono molto simili a quelle della dipendenza da sostanze: intensa euforia in presenza del partner, desiderio spasmodico e irrefrenabile di essere con lui, tendenza a trascorrere sempre più tempo in sua compagnia e infine, nel caso di interruzione della relazione, sintomi simili a quelli che si riscontrano nella sindrome d’astinenza dei tossicodipendenti (depressione, ansia, insonnia o ipersonnia, irritabilità, perdita dell’appetito o abbuffate) e che spesso portano a ricadute.
Quando si parla di dipendenza affettiva è bene ricordare che un certo grado di dipendenza dal partner è una componente importante di ogni storia d’amore, soprattutto nella fase dell’innamoramento, caratterizzata da un forte senso di intimità e passione, in cui il vissuto di fusione può risultare particolarmente forte.
Nella dipendenza affettiva questo aspetto viene esasperato e il bisogno dell’Altro si cristallizza, pervadendo l’intera vita dell’individuo. La vicinanza e il legame con un’altra persona, spesso assente o sfuggente, diventa lo scopo unico e ultimo della propria esistenza. L’Altro diventa questione di vita o di morte: i bisogni individuali sono negati e annullati all’interno di un legame unidirezionale.

Nella vita delle persone che soffrono di dipendenza affettiva tutto inesorabilmente ruota attorno al partner e spesso la persona dipendente si chiude o evita volutamente gli altri nel tentativo di proteggersi dalle critiche. Accade di frequente che abbandoni progressivamente i suoi interessi e hobby, per seguire quelli del compagno o compagna. Il tempo in cui non si è in presenza della persona amata, viene speso a rimuginare sull’insoddisfazione della propria relazione, e la mente è costantemente occupata dal pensiero dell’Altro, tanto che non sono rare le situazioni in cui questo porta a importanti difficoltà lavorative.
Spesso i pazienti dipendenti riferiscono il vissuto di non esistere senza la persona amata, che diviene necessaria come l’aria per respirare. L’Altro è costantemente rincorso esattamente come fanno i giocatori d’azzardo che rincorrono la perdita e non riescono a smettere di giocare.
Tali dinamiche possono diventare particolarmente pericolose e sfociare in situazioni estreme, come ad esempio nel caso di violenza fisica: i pazienti dipendenti tendono a giustificare il partner, si isolano, mentono o non chiedono aiuto pur di proteggerlo; spesso purtroppo non riescono a lasciarlo nemmeno quando è a rischio la loro incolumità fisica.

Per comprendere a fondo la dipendenza affettiva è necessario considerarla in un’ottica relazionale: non quindi come un fenomeno che riguarda il singolo, ma come una dinamica che riguarda la coppia.
Il dipendente si considera spesso una persona non meritevole d’amore, si sente inadeguato e la sua vita è dominata da una costante angoscia di essere abbandonato. Per questo tenderà a scegliere inconsciamente partner problematici, evitanti, anaffettivi che andranno a confermare l’immagine negativa di sé.
Le persone dipendenti, offuscate dal terrore della solitudine, tendono ad assumere comportamenti compiacenti di estrema disponibilità e accudimento verso la persona amata, con la speranza di realizzare i suoi desideri e rimanerle accanto.
Il partner, all’opposto, avvilisce costantemente le debolezze del dipendente sul piano fisico, caratteriale, estetico, operando un costante confronto con un Altro, reale o ipotetico, sempre migliore. Si instaura così un vero e proprio circolo vizioso che si autoalimenta e che porta ad una totale perdita di autostima, ad un profondo e costante senso di angoscia, al terrore di essere lasciati, tanto da attribuirsi colpe che in realtà non si hanno, pur di giustificare i comportamenti svalutanti dell’Altro.
Eccitazione, euforia, passionalità scaturiscono proprio dalla indisponibilità e dal rifiuto della persona amata che spesso alterna, in modo repentino e sconcertante, slanci passionali ad atteggiamenti di profonda freddezza, chiusura e violenta critica. Tale capricciosità, che dovrebbe portare verso un allontanamento e una visione critica dell’Altro, forza invece ancor più nella direzione di un invischiamento sempre più cieco e profondo. Il dipendente è costantemente ossessionato dal tentativo di ricreare dei momenti piacevoli, rivivere la loro magia, sperando in un cambiamento del partner, magari proprio grazie alla propria azione salvifica. Nonostante l’Altro si dimostri impermeabile alla critica e al cambiamento, il dipendente continua a sperare, aggrappandosi all’illusione che prima o poi arrivi la svolta, sopportando angherie e sottili umiliazioni e rimanendo sempre più imprigionato in un incastro mortale.
Generalmente, i pazienti con dipendenza affettiva sono consapevoli della spirale asfissiante in cui sono rinchiusi, ma esattamente come i tossicodipendenti, non riescono a separarsi dal partner.
A volte, tale consapevolezza può portare a dire basta e a chiudere la relazione ma, inevitabilmente, sopraggiungono i sintomi dell’astinenza (depressione e incapacità di provare piacere, ansia, sensazione di vuoto ecc.), che inducono a perdonare la persona amata e a giustificarla, riprecipitando così nell’eterno circolo vizioso.

Le persone che soffrono di dipendenza affettiva possono trovare un grande aiuto in un percorso di psicoterapia ad orientamento psicanalitico, grazie al quale diventa possibile uscire dallo stato di profonda angoscia e terrore che costantemente li accompagna, portando al progressivo alleviarsi della loro sofferenza.
Condizione imprescindibile affinché questo avvenga, è che il paziente diventi consapevole del proprio funzionamento, e comprenda quale sia la motivazione sottostante alla dipendenza, che spesso si configura come un estremo tentativo di guarire un’antica ferita d’amore.
Solo rielaborando il passato è possibile rompere antichi schemi disfunzionali e dar vita a nuove possibilità di relazioni affettive, basate sulla reciprocità, sulla fiducia, sul rispetto e in cui sentirsi finalmente amati e accettati.

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre

 

Addomesticare la solitudine

4 anni ago · · Commenti disabilitati su Addomesticare la solitudine

Addomesticare la solitudine

“Dove sono gli uomini?” disse il Piccolo Principe;
“Si è un po’ soli nel deserto”.
“Si è soli anche con gli uomini”, rispose il serpente.

Il piccolo principe
Antoine de Saint-Exupéry

 

Sempre più spesso, al giorno d’oggi, le persone riferiscono di soffrire di un profondo senso di solitudine. Si tratta di un vissuto oscuro e persistente, che insegue l’individuo per tutto il giorno, indipendentemente dal suo essere realmente da solo o con qualcuno, e che è accompagnato di frequente dalla sensazione di non essere compreso o accettato e di non sentirsi parte del mondo.
È uno stato d’animo che può far mancare il respiro e che, in genere, porta le persone a riempire le proprie giornate di impegni, per scongiurare il vuoto e la sua percezione angosciosa.
Questi vissuti possono diventare così pervasivi, da tradursi in una condizione psicologica seria che, se non affrontata, può portare a disturbi d’ansia, depressione, dipendenze e difficoltà relazionali.


Vari psicanalisti si sono occupati di questo particolare sentimento, arrivando a concettualizzazioni anche molto diverse tra loro.
Melanie Klein, ad esempio, considera il senso di solitudine come il vissuto di perdita dello stato interiore di perfetta unione e intesa, sperimentato nei primi mesi di vita dal neonato verso la madre. Il sentimento di solitudine deriva, secondo questa psicanalista, dalla nostalgia per la perdita irreparabile della comunicazione e comprensione profonda, che contraddistinguono questo particolare momento evolutivo, ed è una condizione ineliminabile di tutta la vita.
Winnicott, invece, parla della solitudine a proposito della capacità dell’individuo di stare da solo in presenza di un altro significativo, capacità considerata una meta fondamentale dello sviluppo emotivo. Questa competenza si sviluppa solo in presenza di una madre sufficientemente buona, che rispecchiando i bisogni del bambino, è in grado di riconoscerli e di rispondevi in maniera adeguata.

La possibilità del soggetto di entrare in relazione con un altro affonda, quindi, le sue radici nel primo rapporto madre-bambino ed è proprio dalla qualità di questo rapporto che dipende la capacità di godere della solitudine, intesa nella sua accezione positiva. L’individuo che sperimenta un senso di profonda angoscia legato a tale sentimento non ha goduto, quindi, di questa fondamentale esperienza infantile, condizione imprescindibile per lo sviluppo di un Io integrato e strutturato.

 

La solitudine ha quindi due volti: uno oscuro e angosciante, l’altro stimolante e creativo. Da un lato essa esprime il vissuto doloroso di profonda angoscia e terrore di ritrovarsi soli e abbandonati, una prigione da cui fuggire ad ogni costo; dall’altro può essere intesa come slancio di vita, come base della creatività, come spazio di introspezione, come momento di profondo contatto con la propria soggettività.
La paura della solitudine è, in ultima analisi, la paura di ritrovarsi da soli con se stessi e con le proprie emozioni, è la difficoltà a stabilire un dialogo interiore. È l’impossibilità di coinvolgersi in relazioni importanti, che siano di amicizia o sentimentali; è infine, l’incapacità di stabilire contatti profondi e significativi con le persone.
Se però la solitudine viene accettata, se si impara a godere di essa, se si riesce “a stare in sua compagnia”, tale vissuto può diventare un’occasione molto importante di crescita interiore.
Accettare la solitudine significa, infatti, entrare in contatto con se stessi, diventare coscienti delle proprie debolezze e delle proprie risorse, acquisire la consapevolezza della propria unicità.


Jean Michel Quinodoz, psicanalista svizzero, sottolinea a tale proposito come la solitudine, se addomesticata, possa diventare un bene prezioso, perché prendere consapevolezza di essa permetterebbe di apprezzare maggiormente la ricchezza delle relazioni con gli altri.
L’autore sottolinea quanto possa essere profondo l’incontro tra paziente e analista, proprio come spazio di elaborazione e trasformazione di tale vissuto.
Il passaggio da una solitudine ostile e angosciante ad una solitudine addomesticata, base della fiducia nella comunicazione con se stessi e con gli altri, avviene attraverso l’elaborazione dell’angoscia di separazione, all’interno della dinamica transferale.
Addomesticare la solitudine non significa sopprimere l’angoscia, ma imparare a fronteggiarla e utilizzarla per metterla al servizio della vita. L’angoscia di separazione, se elaborata, diventa quindi strutturante per l’Io, perché il percepire il dolore che accompagna tale sentimento permette di prendere consapevolezza della propria e dell’altrui unicità.
Sentirsi soli, quindi, significa prendere coscienza che si è unici e che l’altro è ugualmente unico e ciò permette di cogliere il valore inestimabile delle relazioni.
Elaborando e trasformando la solitudine è quindi possibile ridefinire il mondo interno dell’individuo, permettendo un nuovo e più sereno rapporto con se stessi e con gli altri.

Articolo a cura della Dott.ssa Elisa Terren
Psicologa Psicoterapeuta a Mirano e Mestre